COSA CAMBIA NEL CERVELLO CON LA MEDITAZIONE
Mindfulness è una parola inglese che significa consapevolezza ed è un termine che si sta
diffondendo sempre più nell’ambito della ricerca scientifica. Si tratta di una pratica meditativa le
cui tecniche affondano le loro radici nell’India di circa 2500 anni fa e sono state traghettate
nei secoli dalla tradizione buddhista fino ai giorni nostri. Approdate nell’ambiente scientifico
hanno da un lato abbandonato le loro vesti religiose e dall’altro hanno conservato la loro ossatura di
conoscenze pratiche. L’ingresso della meditazione nella comunità scientifica è stato possibile, in
particolar modo, grazie all’intervento del biologo e scrittore newyorkese Jon Kabat-Zin. Infatti fu lo
scienziato a estrarre dalle pratiche millenarie un protocollo metodologico (denominato M.B.S.R.:
Mindfulness Based Stress Reduction, in italiano riduzione dello stress basato sulla mindfulness) di
comprovata efficacia. Tale approccio è stato impiegato in un numero crescente di studi clinici.
Infatti se si inseriscono nel motore di ricerca PubMed, dedicato alla letteratura scientifica
biomedica, le parole chiave mindfulness e meditation, si coglie che negli ultimi cinque anni hanno
visto la luce ben 1.025 articoli “autorizzati” alla pubblicazione. In queste poche righe si vogliono
descrivere, a titolo di esempio, quali modificazioni può provocare a livello cerebrale la pratica
costante della meditazione.
Una prima variazione si registra a livello di attività elettrica del tessuto nervoso. La meditazione
intensifica l’attività delle onde theta e alfa e diminuisce le beta. Le theta sono quelle della calma,
della quiete, del rilassamento e della creatività, mentre le seconde sono quelle della vigilanza e della
normale allerta, del problem solving. Inoltre nella pratica della mindfulness si registra un’attivazione
dell’area prefrontale del cervello, posta all’incirca dietro la fronte. Tale zona ha un’intima
connessione con altre strutture cerebrali più profonde quali l’amigdala e il sistema limbico che, tra
l’altro, partecipano all’elaborazione delle emozioni. La stimolazione di queste regioni porta anche a
una diminuzione dell’impulsività. Inoltre nella scatola cranica esiste una struttura chiamata giro
cingolato anteriore, responsabile della capacità di concentrare l’attenzione su un dato processo come
a esempio seguire i flussi della respirazione (inspirazione ed espirazione) senza che altre idee
possano distrarre da questa focalizzazione; oppure a tornare sull’oggetto della concentrazione se ci
si è distratti. Per continuare v’è poi la struttura dal nome suggestivo di insula capace, tra altre
funzioni, di sintonizzare l’attenzione su di noi ed è in grado di sentire “il corpo che parla”, ossia
raccoglie le sensazioni che arrivano da diversi distretti dell’organismo. E infine c’è il cervello che
“dialoga tra sé e sé”. Questo discorrere interno porta all’emersione di svariati pensieri che fanno
capolino in assenza di istruzioni più precise che permettono di sostare nel qui e ora. Capita sempre
quando ci si trova a vivere in uno stato di noia, per esempio. Tecnicamente il sistema descritto si
chiama Default Mode Network. Nuovamente la meditazione attenua questo vagare mentale portando
l’osservatore a prendere atto di solo ciò che è presente. Quindi interrompe i viaggi temporali della
mente, il rimuginio e le preoccupazioni.
La mindfulness è in grado di apportare cambiamenti al cervello anche in tempi ridotti appoggiandosi
a una pratica costante. Per esempio il menzionato protocollo di Kabat-Zin dura otto settimane.
Naturalmente quelle citate sono tutte buone notizie per il nostro benessere e per l’indagine interiore,
però per mantenere questo stato, acquisito con determinazione e costanza, è necessario non
interrompere mai la pratica altrimenti ciò che si è conquistato si perde.
Dante Bianchi