Domenica scorsa eravamo seduti nel bar di Ferentillo. Mentre osservavo le foto degli arrampicatori appese sulle pareti, ho pensato di regalare al bar un poster che ho portato dal Giappone, pubblicato dal monastero Myoshinji. É la foto di una ragazza seduta a gambe incrociate sul cuscino e sotto è scritto in un respiro tremila mondi. Probabilmente chi frequenta Scaramuccia dovrebbe averlo, perché ne abbiamo fatte delle copie da vendere al tempio. In questa scuola, l’attenzione al respiro è il mezzo per entrare in uno stato in cui i pensieri cessano di interferire e si sperimenta una condizione di vuoto. Come viene anche detto durante il rilassamento alla fine delle lezioni di yoga dei nostri corsi, si diventa uno col grande respiro dell’universo, che è proprio quanto è scritto sotto la foto della ragazza che medita. È molto importante comprendere come il respiro possa essere anche tremila mondi, perché siamo normalmente portati a usare termini come: mia illuminazione, mio risveglio alla realtà, mia o propria natura di Buddha. Pur con tutte le attenuanti che possiamo avere nei confronti di una lingua che ha il possessivo, per indicare qualcosa al singolare non se ne può fare a meno, il praticante deve essere consapevole di ciò. È certo che io, come essere umano ho degli organi che mi permettono di far entrare e uscire l’aria dal mio corpo. Ma dicendo che in un respiro ci sono tremila mondi non mi riferisco all’aria che entra e a quella che esce, ma a ciò che questo ritmo così normale e naturale permette di realizzare: sono un respiro e nello stesso tempo sono tremila mondi. E così realizzare che sono natura di Buddha, ma non sono io a essere la natura di Buddha, l’assoluto o l’intero universo. Non si può dire la mia natura di Buddha, sebbene in alcuni casi, per farsi capire, s’è costretti a dire così per farsi capire con la lingua con cui si comunica.
Engaku Taino – discorso del 23 Settembre 2009